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  • Data di creazione 27/05/2025
  • Ultimo aggiornamento 27/05/2025

CARAVAGGIO

Nato a Milano nel 1571, Michelangelo Merisi è noto come Caravaggio dal nome del paese lombardo da cui proviene la famiglia. Vive a Milano fino al 1593 quando si trasferisce a Roma, entrando a bottega presso un pittore noto come Cavalier d’Arpino (1568-1640).

Nella capitale, tra il 1594 e il 1598, Caravaggio dà subito prova del suo grande talento dipingendo personaggi mitologici come un languido Bacco intento a banchettare, scene di genere come un insolito Ragazzo morso da un ramarro o I bari, due truffatori intenti a ingannare la loro vittima. Quadri sorprendenti per il grande realismo delle figure e dei dettagli e per la naturalezza dell’insieme, due elementi tipici di Caravaggio. Una scelta non solo artistica ma anche caratteriale: Caravaggio era un uomo intemperante che amava circondarsi di gente del popolo, spesso poco raccomandabile. Presto si specializza nelle nature morte di fiori e di frutta, un genere già praticato nelle Fiandre ma piuttosto raro in Italia, rivelando altrettanto virtuosismo anche nella rappresentazione di oggetti inanimati.

 Risale a questo periodo anche Riposo durante la fuga in Egitto. Il momento scelto è una sosta durante la fuga della Sacra Famiglia, intrapresa per mettere in salvo il piccolo Gesù dallo sterminio dei neonati ordinato da Erode (noto come Strage degli innocenti). Ma se non fosse per l’angelo di spalle che suona il violino mentre Giuseppe gli regge lo spartito, potrebbe trattarsi di una normale famiglia in viaggio, con la madre affaticata che dorme abbracciando il suo bambino, il padre seduto sul fagotto e un asino che si affaccia curioso dallo sfondo. Manca del tutto la sacralità tipica dell’iconografia rinascimentale, in cui la Madonna siede sull’asino come su un trono. A restituire il senso del divino sono il drappo leggero e luminoso che avvolge l’angelo svolazzando e le sue ali scure al centro del quadro.

Caravaggio torna alla natura morta per il cardinale Francesco Maria Del Monte, un committente che sarà fondamentale per la sua carriera artistica. Per lui dipinge nel 1596 la Canestra di frutta, una composizione incredibilmente realistica e al contempo carica di significati simbolici; l’unica natura morta di Caravaggio giunta fino a noi (ma ne inserisce tante in altri dipinti a tema sacro o mitologico). Il quadro mostra un cesto in vimini pieno di frutta e foglie che campeggia sopra un ampio sfondo giallo chiaro. La perfezione quasi fotografica e la disposizione elegante dentro un semicerchio nascondono una natura in decomposizione, una bellezza ormai sfiorita: la mela è bacata, l’uva troppo matura sta per marcire, le foglie di vite appassite si stanno già accartocciando, elementi simbolici che alludono alla transitorietà delle cose terrene. Il cesto è osservato frontalmente, da un insolito punto di vista all’altezza del piano su cui poggia; non è possibile, dunque, percepire la profondità del tavolo o la distanza di questo dalla parete. Eppure Caravaggio riesce a creare la terza dimensione con uno stratagemma tanto minimo quanto sapiente: lascia che il bordo del cesto sporga leggermente dalla superficie d’appoggio, quanto basta perché proietti una sottile ombra sul bordo orizzontale. Ed ecco che la canestra assume una precisa collocazione spaziale recuperando il suo volume. A tutto ciò si aggiunge l’uso virtuosistico del chiaroscuro creato dalla luce proveniente da sinistra. Niente ombre drammatiche ma un passaggio lento e progressivo, evidente nell’intreccio del vimini, dalla zona più luminosa a quella in ombra.

Sempre per il cardinale Del Monte, Caravaggio dipinge tra il 1596 e il 1598 una straordinaria Testa di Medusa. Il capo grondante sangue dal collo mozzato e gli occhi spalancati in un’espressione di terrore: Medusa è raffigurata su una tela applicata a uno scudo bombato di forma circolare. Il supporto, insolito, richiama la leggenda secondo la quale Perseo avrebbe sconfitto Medusa facendola specchiare sullo scudo prestatogli da Atena e questa, riavuto indietro lo scudo, vi avrebbe applicato la testa usandola come arma. In quest’opera sono presenti tutti gli elementi tipici della pittura di Caravaggio e del filone naturalista dell’arte barocca: l’estremo realismo del volto e dei serpenti, il sapiente uso del chiaroscuro che modella il viso e separa la testa dallo sfondo, la crudezza dei dettagli più macabri come il sangue che schizza dal collo reciso.

La drammaticità dell’evento è massima anche perché Caravaggio non ha scelto un momento qualsiasi ma quello più carico di pathos, l’attimo in cui Medusa è ancora viva, sebbene decapitata, e urla tutto il suo orrore mentre decine di serpenti si avvinghiano tra loro impazziti.

Grazie all’intercessione dal cardinale Del Monte, nel 1599 Caravaggio riceve il suo primo incarico per un luogo pubblico: realizzare tre dipinti di grande formato per la Cappella Contarelli nella Chiesa di San Luigi dei Francesi, a Roma. Le tre opere dovevano rappresentare la vita di San Matteo cominciando con la vocazione a sinistra, la scrittura del Vangelo al centro e il martirio a destra. L’ordine di esecuzione, tuttavia, non seguirà la cronologia della vita del santo: la prima tela dipinta da Caravaggio è il Martirio, la seconda la Vocazione e la terza quella con San Matteo e l’angelo. Dei tre quadri, la Vocazione di San Matteo (1599-1600) è quella che meglio rivela la capacità di Caravaggio di drammatizzare un episodio apparentemente banale rendendolo epico. Caravaggio interpreta il brano raffigurando in un interno il gabelliere Matteo mentre conta il denaro delle tasse con altri quattro uomini. Cristo entra in scena da destra, parzialmente coperto dalla figura di San Pietro. L’ambiente simile a un’osteria e i costumi dei personaggi a sinistra, propri dell’epoca di Caravaggio, fanno assomigliare il dipinto a una scena di genere. Il giovane al centro, visto di spalle, rende la scena più naturale e verosimile e restituisce profondità spaziale a un ambiente privo di prospettiva. Matteo, voltandosi, indica sé stesso con stupore, quasi a chiedere conferma della volontà divina. Ma il gesto di Cristo è chiaro, la mano protesa con il dito leggermente sollevato (un omaggio evidente alla Creazione michelangiolesca) non ammette tentennamenti e la luce sembra quasi materializzare e ribadire la perentorietà della chiamata divina. Entrando con un taglio netto diagonale da una fonte esterna alla scena, in alto a destra, irrompe nel locale sfiorando il volto e la mano di Cristo e si riversa sui personaggi colpendoli con violenza. L’indifferenza degli uomini più a sinistra indica che, anche se la chiamata divina arriva a tutti, ognuno è libero di scegliere se seguirla o meno. Tutto il resto è ombra e buio, le tenebre del peccato dovute alla mancanza di Dio. Persino la finestra, in alto, sembra opaca: la sua luminosità è nulla rispetto a quella che arriva da Cristo. Un elemento simbolico, dunque, la luce, ma anche un espediente pittorico, uno stratagemma capace di conferire ai dipinti grande teatralità e carica emotiva. C’è di più: il fascio luminoso ha la stessa direzione della luce naturale che entra nella cappella dalla finestra centrale sopra all’altare.

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