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  • Data di creazione 26/05/2025
  • Ultimo aggiornamento 26/05/2025

IL PARADISO DI DANTE - SPIEGAZIONE E SCHEMA - CANTO VI

Il Canto è occupato interamente dal discorso dell'imperatore Giustiniano (caso unico nel poema) che risponde alle due domande che Dante gli ha posto alla fine del precedente, rivelando cioè la sua identità e spiegando la condizione degli spiriti del II Cielo: nella parte centrale fa seguire alla prima risposta una «giunta» che è una digressione sulla storia dell'Impero romano e della sua funzione provvidenziale, per cui il tema del Canto è politico come il VI di ogni Cantica (secondo una gradazione crescente, da Firenze, all'Italia, all'Impero). La ragione della lunga digressione è mostrare, nelle intenzioni del personaggio, la cattiva condotta di Guelfi e Ghibellini nei confronti dell'aquila simbolo dell'Impero, in quanto i primi vi si oppongono e i secondi se ne appropriano per i loro fini politici, causando molti dei mali politici che affliggono l'Italia e l'Europa del tempo; soluzione a questi mali è, secondo Dante, l'Impero universale, ovvero un'autorità che imponga il rispetto delle leggi e assicuri a tutti la giustizia, ponendo fine alla situazione di anarchia e instabilità che caratterizza soprattutto l'Italia.

Proprio questo spiega, forse, perché Dante affidi a Giustiniano l'alta celebrazione dell'Impero provvidenziale, nonostante egli fosse un monarca dell'Impero orientale e avesse regnato su Costantinopoli e non su Roma: egli aveva emanato il Corpus iuris civilis che fu poi base del diritto di tutto il mondo romanizzato del Medioevo, un'opera giuridica immensa a cui Dante assegnava un alto valore, oltre al fatto che Giustiniano aveva tentato di ricostituire l'antica unità dell'Impero con la riconquista di Roma e dell'Italia.

Il poeta mette in bocca a Giustiniano un alto e solenne discorso che inizia con la prosopopea dell'imperatore che si presenta come l'autore della riforma legislativa e della vittoriosa spedizione in Occidente, sia pur affidata al generale Belisario (i contrasti con quest'ultimo vengono taciuti dal poeta), opere che hanno goduto entrambe del favore divino e, anzi, l'emanazione del Corpus sarebbe stata ispirata addirittura dallo Spirito Santo.

Il volere divino ha determinato anche la creazione dell'Impero, il cui valore provvidenziale è al centro di tutta la successiva digressione: Giustiniano ripercorre le vicende storiche di Roma attraverso il volo simbolico dell'aquila, simbolo politico e militare del dominio romano, dalle mitiche origini troiane (evocate attraverso il riferimento a Enea e il sacrificio di Pallante), al periodo monarchico, fino alla creazione della Repubblica, citando i più rappresentativi personaggi della storia romana (fonte principale, se non l'unica, è sicuramente Livio).

Il punto finale di tutto questo processo è ovviamente la nascita del principato con Cesare e Augusto, voluta da Dio per unificare il mondo in un'unica legge e favorire così la venuta di Cristo: dopo la celebrazione di coloro che per Dante erano i due primi imperatori, vi è quella del terzo (Tiberio) sotto il cui dominio Cristo viene crocifisso, evento centrale nella storia umana e che ha la funzione di punire il peccato originale; in seguito tale punizione viene a sua volta punita da Tito, artefice della distruzione di Gerusalemme che Dante gli attribuisce quando era già imperatore, mentre in realtà ciò avvenne sotto Vespasiano.

Il disegno provvidenziale si esaurisce qui, poiché negli anni seguenti l'Impero inizia il suo lento declino culminato proprio nel trasferimento della capitale a Bisanzio e nella successiva divisione tra Oriente e Occidente, cui sarà Giustiniano a porre rimedio sia pure in modo effimero; da qui si arriva velocemente a Carlo Magno, protettore della Chiesa contro i Longobardi e, quindi, legittimo erede dell'autorità imperiale (Dante afferma una volta di più che l'Impero germanico è erede e continuatore di quello romano, quindi legittimato a imporre la sua autorità su tutto il mondo come ribadito più volte nel poema e nella Monarchia).

Dalla digressione nasce poi l'aspra invettiva contro Guelfi e Ghibellini, che per motivi diversi oltraggiano il sacrosanto segno e sono da biasimare in quanto causa dei mali politici dell'Europa di inizio Trecento: l'attacco è soprattutto contro Carlo II d'Angiò, più volte biasimato da Dante nel poema e contro cui Giustiniano rivolge un duro richiamo affinché non si illuda che la monarchia francese possa sostituirsi all'autorità dell'Impero, che è la stessa polemica portata avanti da Dante contro il re di Francia Filippo il Bello.

La risposta alla seconda domanda di Dante, ovvero la condizione degli spiriti operanti per la gloria terrena, dà modo a Giustiniano di concludere il Canto indicando un altro beato di questo Cielo, quel Romeo di Villanova ministro del conte di Provenza Raimondo Berengario e vittima, secondo una diffusa diceria, delle calunnie degli altri cortigiani che lo costrinsero a lasciare la corte vecchio e povero. Non si tratta solo di un edificante esempio di cristiana rassegnazione, dal momento che tale aneddoto ha una valenza politica che si collega al tema centrale del Canto: la figura di Romeo, cacciato dalla Provenza nonostante il suo ben operare, adombra quella di Dante stesso, che subì la stessa condanna da parte dei Fiorentini.

L'ingiusto destino che accomuna Dante e Romeo è anche il prodotto della decadenza politica, quindi (nel caso di Dante) è causato dall'assenza di un potere imperiale in grado di applicare le leggi e assicurare la giustizia.

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Figura Giustiniano_CANTO VI.pdf
Commento_CANTO VI_PARADISO.pdf